ECOFEMMINISMO: intervista a GIOVANNA BRAMBILLA Responsabile dei servizi educativi GAMEC Galleria di Arte Moderna e Contemporanea

E’ a cura di Cristiana Capelli la quarta intervista della nostra ricerca su relazioni tra donne, leadership e autorità a Giovanna Brambilla.

Responsabile dei servizi Educativi di Gamec Bergamo. Storica dell’arte, insegna presso ITCTS Vittorio Emanuele II di Bergamo. E’ docente presso l’Università  del Sacro Cuore di Milano e presso la Business School del Sole24Ore (Master in Economia e Management dei Beni Culturali). In GAMeC sta portando avanti una riflessione intorno ai temi del genere attraverso inviti a docenti come Carmen Leccardi ( vedi interventi aula magna sito GAMeC) e con accorgimenti come la somministrazione di questionari per il pubblico che prevedono la possibilità di dichiararsi “altro” oltre all’identita’ binaria di maschile e femminile.  Una riflessione importante ed urgente in questo momento storico di uscita dal patriarcato aiutata dalle nuove generazioni con cui GAMeC si confronta da sempre.

– Nell’ultimo secolo il modello patriarcale è stato messo in discussione dalle lotte femministe e parallelamente, per quanto paradossale, dal liberismo: questo percorso ha portato/sta portando ad un equilibrio di genere o è ancora necessaria una rivoluzione per superare i modelli maschili? A partire dalla tua esperienza, il superamento del patriarcato è uno dei temi che la ricerca artistica contemporanea riconosce come importanti?

L’attenzione all’identità di genere – non solo maschile femminile, ma anche più fluida – fa parte di un percorso che nella nostra società sta lentamente avanzando. L’importanza che tutto questo non si focalizzi su un’impronta binaria va sottolineata, perché è proprio nella stessa matrice patriarcale che si ritrovano le chiusure al mondo LGBTQ+, alle appartenenze non normate, al desiderio di libera espressione del sé, delle proprie preferenze e delle proprie inclinazioni, nell’affettività ma anche nel lavoro. Se è necessaria una rivoluzione? Non lo so, so che è necessaria cultura, e che la scuola si è progressivamente impoverita di una serie di contenuti importanti, abbassando la qualità di quegli stimoli che ne potevano fare un luogo dove ridisegnare molte questioni.

Credo che i colori dei vestitini dei neonati, i libri su cui si imparano le prime parole e i primi concetti, siano talmente imbevuti di stereotipi da generare un imprinting poi abbastanza difficile non tanto da superare, quanto da riconoscere.

 

I ruoli di cura dati alle donne, quelli decisionali dati agli uomini, le immagini sui testi, nelle pubblicità, con il papà che torna dal lavoro mentre la madre è in cucina, ma anche il numero di donne licenziate in occasione o subito dopo le maternità, le disparità stipendiali, sono segni brucianti di una disuguaglianza tremenda, faticosa da digerire nel III millennio. Basti pensare che durante il Covid.19, quest’anno, le donne in posizioni di ricercatrice o di docente universitaria hanno visto crollare le proprie pubblicazioni, mentre gli uomini in analoghi incarichi sono riusciti a tenere il loro standard. E ci si chiede come mai, forse? Chi avrà seguito i figli a casa da scuola? Ha senso invocare una parità di pubblicazioni tra maschi e femmine, come se fosse una conquista di uguaglianza, disconoscendo alcuni aspetti della vita delle donne che generano una diversa gestione del tempo? Don Milani sosteneva che “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali”, quindi forse il superamento del modello patriarcale non va elaborato a partire da una meccanica uguaglianza, ma va superato con una rivalutazione di ruoli e attività, di scelte, indipendentemente dal fatto che li fa sia un uomo o una donna. Il tempo per la genitorialità, ad esempio, ma le ipotesi potrebbero essere molte. Nella ricerca artistica credo che non siano poche le donne che hanno affrontato questo tema, da Tracey Emin a Jenny Holzer, da Birgit Jürgenssen, da Andrea Fraser a Judy Chicago, ma mai in modo esclusivo – il che, forse, sarebbe stato limitante, piuttosto come sfumatura all’interno di macro temi legati alla dignità, al rispetto, al valore del lavoro, al diritto a esprimere le proprie aspirazioni.

– Superata l’idea “Natura ad uso e consumo”, è possibile identificare una ricerca nel campo dell’arte contemporanea che si ponga come paradigma nella discussione sulle tematiche ambientali? Conosci artiste che operano in questo campo? Se sì, puoi raccontarci la tua esperienza? 

Anche nell’arte contemporanea le esperienze in questo campo sono “gender fluid”, e non necessariamente riconducibili a donne. Nascono dalla contaminazione tra generi e discipline, da un’ibridazione di appartenenze. Basti pensare alla teorizzazione del terzo paesaggio, e a quanto artiste e architette, ma anche artisti e architetti, sono intervenute in questa definizione.

Se, però dovessi scegliere alcune artiste, in rappresentanza del lavoro sulle tematiche ambientali, i nomi che mi vengono in mente sono apparentemente lontani dal concetto di natura come ecosistema di piante, luce, terreno, ma piuttosto legate alla consapevolezza della natura umanizzata, che però si desidera trasformare.

 

Chiara Bersani, che porta la naturalezza attraverso un corpo differente, facendo vibrare l’ambiente in cui si muove e promuovendo nuovi ritmi, nuove crescite, ma anche Rachel Whiteread, che valorizza il vuoto, rendendolo fertile, e Lygia Pape, che ridisegna la natura attraverso i corpi. Ovviamente la punta di diamante è Maria Lai, che ha tessuto lo spazio e il tempo, trasformando in poesia una terra. 

– A partire dalla tua esperienza, quale è lo “stato di salute” delle donne all’interno delle istituzioni e della politica tra donne? Raccontaci se vuoi un aneddoto che ti ha fatto riflettere su questo tema.

Credo che le donne, all’interno della politica e della cultura, stiano guadagnando posizioni di rilievo, con una spinta trainante che viene dai paesi del nord, più che da quelli mediterranei. Nella nostra città la quasi totalità delle istituzioni culturali cittadine – la Biblioteca Angelo Maj, la Pinacoteca Carrara, il Museo Archeologico, il museo di Storia Naturale, il Museo delle Storie di Bergamo – ha direttrici valide, sono donne le direttrici dei musei facenti parte della Direzione Musei Lombardia, ci sono donne nella giunta della città, solo donne da noi in GAMeC – unico uomo è il direttore -. Non significa però che lo stato di salute sia buono. Basta un soffio. Una gravidanza, per generare disappunto nei datori di lavoro, la fatica nel conciliare lavoro e figli, che a volte porta a licenziarsi, la famiglia da gestire che viene vissuta come un punto debole e, scavando come un fiume sotterraneo, erode la professionalità. Su quel fronte le donne sono spesso attaccate, la loro tenacia, il loro giostrarsi tra mille impegni non viene visto come una “gestione risorse umane” tale da meritare la carica di dirigente, quanto un dispendio di energie che distoglie dall’ambizione, e dalla mira a conquiste più elevate. Questo accade più raramente nel nord europa, dove politiche mirate hanno valorizzato l’interazione di qualità tra famiglia e lavoro. Un aneddoto: quest’anno, in una conversazione tra conoscenti a cui ho preso parte, ho sentito dire di una neomamma, da poco tornata al lavoro, che prima era una professionista in gamba, ma ora era una mamma che lavorava, il tutto detto con grande ingenuità, senza consapevolezza. Ecco, forse questo ci fa capire che la strada è ancora lunga. 

Il campo della storia dell’arte è costellato da figure di artisti uomini che hanno di fatto “costruito” il pensiero artistico nei diversi periodi storici e sono stati protagonisti indiscussi delle principali correnti artistiche e, dai primi del ‘900 dei più importanti movimenti artistici. Come studiosa qual è il tuo pensiero a riguardo? Senti personalmente la responsabilità politica di offrire spazio alle artiste?

 

 

Nella contemporaneità molte, e geniali, sono le voci di donne che stanno riscrivendo l’arte, la sua storia, le biografie degli artisti, gli aspetti sociologici e curatoriali, penso a Lea Vergine, Angela Vettese, Claire Bishop, Sarah Thornton, Nathalie Heinich. Credo che ci sia un rischio, nella rilettura della storia, quello di restare in un manicheismo. Una storia dell’arte al maschile, con quel tanto di Sofonisbe, Camille, Artemisie e Fride da placare gli animi, e una storia dell’arte al femminile, che si concentri solo sulle donne. Il non accesso delle donne all’istruzione artistica, per molti secoli, ovviamente ha condizionato il mancato riconoscimento di figure di qualità, ma se queste figure erano poche è dovuto, spesso, alla mancanza di un percorso che le portasse ad avere competenze.

Vedo forte il pericolo di un tokenism, ovvero di itinerari dedicati solo ai percorsi femminili, per dare l’idea di affrontare il problema, ma creando invece nuove enclave; queste scelte possono essere disfunzionali a un percorso serio e complesso che ridisegni una storia dell’arte in cui le figure femminili non siano o ignorate o celebrate, ma in cui si analizzi, in relazione al contesto, la condizione femminile, come soggetto rappresentante o oggetto della rappresentazione, si valuti l’esclusione o l’inclusione, si racconti, attraverso la moda, quali furono le tappe dell’emancipazione, con affondi anche in oriente, o in altri continenti, dove la situazione non era, e non è analoga a quella europea

Credo che ora l’orizzonte delle esperienze sia tale da consentire di dare spazio, nelle esposizioni, nelle conferenze, nelle tavole rotonde, a artiste così come ad artisti, cercando di essere sempre bilanciati. Ho sempre trovato ambigua la scelta delle quote rosa, ma è vero che la considerazione la si costruisce con la presenza, e la presenza a volte va sostenuta. Personalmente ho sempre guardato ai lavori più che al genere dell’artista, e quando mi sono trovata a scrivere per delle mostre il fatto che si trattasse di un artista maschio o femmina non ha mai influito, l’opera è altro, è qualcosa di generato, creato, che chiede di essere studiato di per sé. Nel mio lavoro, nella scelta di relatori o relatrici per conferenze, ho sempre cercato le migliori professionalità presenti, meglio se bilanciate, ma senza che questo fosse un vincolo.

– Come insegnante, pensi che i temi dell’ecofemminismo interessino agli adolescenti di oggi? Se no, pensi ci possa essere un modo per riuscire a portare questi temi che normalmente affrontano a scuola e nella vita, proponendoli attraverso nuove modalità?

Come insegnante, credo che in genere il tema dei diritti sia di grande attenzione per ragazze e ragazzi, ma che spesso difetti di strumenti per essere affrontato in modo non naive. L’incrocio di esperienze che le giovani generazioni vivono si articola in una triangolazione casa/scuola/ esterno, dove gli stimoli che vengono dall’esterno sono quantitativamente, e a volte qualitativamente più rilevanti. L’accesso alla rete ha consentito la possibilità di una ricerca autonoma di informazioni, che però non è sempre sostenuta da una capacità adeguata di discernere tra quanto ha una reale sostanza di riflessione, e quanto invece è più uno specchietto per le allodole. Non è vero, poi, che chi proviene da famiglie dove domina il modello patriarcale sia spinto a riprodurlo, perché il confronto e lo scambio di esperienze tra amici e amiche, nelle famiglie così variegate che ci sono ora, spalanca altri mondi e crea un pensiero critico e curioso. Nello specifico non ho mai avuto notizia di dibattiti interni alle scuole sull’ecofemminismo, ma solo sulla parità di genere, e su aperture al mondo LGBTQ+. Per introdurre questo tema nelle scuole sarebbe importante collegarsi a docenti sensibili, e proporre degli interventi nell’ambito delle loro ore, trovando modo di inquadrarle o in un contesto storico sociale, o nell’ambito di educazione civica. Le materie? Molte, credo, dal diritto alle scienze, dalla letteratura all’arte, oppure proponendo validi percorsi di PCTO.

Il Centro di Arte Contemporanea di Milano ex casa dei pittori, in seguito Casa degli Artisti è stato ridenominato in occasione dell’Art Week di settembre 2020, Casa delle Artiste, degli Artisti dal collettivo Gina X. Cosa ne pensi?

La ridenominazione è stata effimera, anche se una delle protagoniste è nel gruppo che gestisce quel luogo, non so se un’azione di questo tipo può andare oltre l’estemporaneo e lasciare un segno. Un nome qualifica, un nome passeggero scompare, soprattutto se ha la breve durata di una settimana. L’iniziativa è quindi lodevole, ma non so quanto incisiva, certo può spingere il pubblico a interrogarsi su cosa sia il collettivo Gina X, ma forse questo 2020 non è stato un anno che ha consentito grandi movimenti fisici di persone negli spazi per toccare con mano nuove proposte. 



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